breathing holes for easing earth HellaBerent 2015 detail, Lago Averno, Campi Flegrei, Napoli

Proiezioni e rifrazioni: arte contemporanea e volti dell’antico in territorio campano.

Antico/contemporaneo: sguardi, prospettive, riflessioni interdisciplinari alla fine della modernità
Gaia Salvatori

Per immaginare un rapporto fra antico e contemporaneo oltre gli schemi del “troppo passato”/“troppo presente” e lasciare agire la distanza , la metafora della “proiezione” e “rifrazione” può aggiungere qualcosa, oltre i termini più frequenti di seduzione, memoria, identità, eredità, riappropriazione, richiamo, attenzione, dialogo, scambio, ripresa, rimando o evocazione. “Proiezioni” dai luoghi dell’antica civiltà greco-romana sulla realtà presente, ma anche del contemporaneo (inteso come ciò che va percepito «nel buio del presente» ) sul passato, e soprattutto “rifrazioni” del fascio di luce della storia provocate da incrinature, interferenze del mondo contemporaneo: “intersezioni”, in sostanza, fra il doppio valore (antico/contemporaneo) che hanno favorito la promozione e la diffusione dell’arte contemporanea in relazione alla valorizzazione di contesti archeologici in territorio campano. Non solo, però, di siti mitici e popolari (come Pompei o Ercolano) ma soprattutto di meno noti, finanche trascurati e marginali, pur essendo parte della stessa storia (come Capua e Santa Maria Capua Vetere, Teano, Pithecusa, Liternum o Atella).

Installazioni site-specific, uso di reperti archeologici nell’opera, citazioni, imitazioni, parodie, reinterpretazioni di aspetti del patrimonio antico nell’arte contemporanea chiamano in causa la nozione di “appropriazione” o più globalmente quella di “storicità” che ha caratterizzato il cosiddetto historiographical e temporal turn d’inizio millennio , e anche quella di «anacronismo», secondo la quale il presente, come anche il passato, «non smette mai di riconfigurarsi» . D’altra parte è dato acquisito dagli studi che l’archeologia rappresenti «una delle manifestazioni più significanti» della cultura del nostro tempo per «la stessa passione della ricerca, la stessa curiosità esploratrice […] che risponde alla irrequieta propensione del mondo moderno verso l’indefinito allargamento delle conoscenze[…]» . Così la società contemporanea, dal suo canto, «ha sviluppato un vero e proprio culto della memoria; […]si cerca laddove domina l’oblio, negli angoli bui della memoria, […] o ancora in quelle zone d’ombra delle realtà locali per recuperare quel sottile e antico legame tra memoria personale e collettiva» . Gli esempi di “proiezioni e rifrazioni” che in questa sede illustrerò rispondono a questo stato di cose e si snodano come operazioni artistiche diverse fra loro e tuttavia accomunate da una qualche forma di relazione “esploratrice” con il territorio campano, i suoi “angoli bui”, le sue risonanze, le sue seduzioni. Queste ultime, in particolare, hanno esercitato uno straordinario influsso sull’immaginario moderno soprattutto quando il sito archeologico a cui ispirarsi o su cui interrogarsi è stato Pompei.

In una mostra al Getty Villa di Los Angeles nel 2012 , l’americano Allan Mc Collum ripropose in serie The dog from Pompei (opera del 1993 oggi esposta al museo MADRE di Napoli) che, riprendendo il calco del cane ritrovato nel 1874 davanti alla casa di Vesonius Primus, risvegliava l’attenzione sui calchi in gesso della vita pietrificata dall’eruzione del Vesuvio. Si trattava, naturalmente, di repliche moderne che enfatizzano la procedura della serialità, propria della produzione artistica greco-romana , ma anche riproponevano la “meraviglia” di un mito: l’aver saputo riportare alla luce – da parte di una “invenzione” archeologica ottocentesca – la vita vera, seppur pietrificata, della gente e degli animali della città campana distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.c.. Oggetti creati dal nulla (da uno spazio vuoto), fantasmi di persone bloccate nell’istante della morte, o opere d’arte esse stesse? Inevitabile andar indietro con la mente alle parole di Cesare Brandi secondo il quale «in quei gessi non si aveva […] il canone fisso di un’estetica tramontata, ma la vita stessa che, al di là della morte, continuava a pulsare sotto i nostri occhi. […] » . Ebbene, sia come oggetti vuoti che come fantasmi di corpi veri e, alla stregua di opere d’arte, di recente venti calchi restaurati sono stati riproposti in un allestimento in cui, in una piramide nell’anfiteatro pompeiano, librano come sospesi nel vuoto . Oltre che vita pietrificata, però, ognuno di essi è come una scultura che – potremmo dire con Heidegger – «sarebbe il farsi-corpo dei luoghi» . E ciò convince soprattutto quando il “luogo” è, come Pompei, tra i miti della storia dell’umanità: un luogo simbolico che può quasi travalicare se stesso per presentarsi anche come luogo di culto della cosiddetta “eternità delle rovine” : le stesse che lo scultore Igor Mitoraj ha inteso “risvegliare” calando dall’alto, fra le strade e le piazze della città sepolta, come “sogni”, trenta colossi ed eroi mitologici in bronzo .

Pompei e i siti limitrofi possono, però, essere anche colti in un diverso gioco di prospettive e contaminazioni specie se ci si riaggancia all’ambiente altamente evocativo del paesaggio naturale di cui è parte . E’ il caso della «traduzione poetica» della villa di Poppea da parte di Laura Cristinzio , ma anche degli studi che Giulio Paolini ha dedicato alla Villa dei Misteri convinto che «l’opera d’arte arrivi da lontano, all’insaputa del suo autore» e che «non è l’artista che proietta qualcosa di sé nell’opera, ma è lui a ricevere un’ apparizione» . Si può, sostanzialmente, «nuotare controcorrente» anche se ci si rapporta ai luoghi mitici di Pompei o Ercolano, come si avverte incrociando l’opera di Nino Longobardi. Con quest’artista napoletano di nuovo ritroviamo la procedura del calco ma soprattutto della sagoma, dell’impronta, ossia di un percorso creativo per sottrazione nel ventre dell’immagine: sagome che con la scelta cromatica del bianco cenere ricordano la calcificazione lavica dei corpi legata alla storia del Vesuvio e che sanno fare da contrappeso alla mole grandiosa di certe statue antiche, come l’Ercole Farnese . Longobardi, dunque, non riprende motivi classici ma scava nell’antico, come qualcosa che appartiene non alla cultura del museo, ma al corpo che è “il luogo” nel quale converge il genius loci e la memoria della forza tellurica che sottopone tutto a trasformazione . Quanto, d’altra parte, le città devastate in età antica dalla potenza catastrofica della natura in Campania siano strettamente correlate alle varie metafore del vulcano, emerge nelle opere che fanno riferimento alla ‘rovina’ e, altrettanto, all’energia (non solo portatrice di morte) presenti nella collezione Terrae Motus, messa insieme dal gallerista Lucio Amelio a seguito del terremoto del 1980. Qui Paolini e Longobardi, ma anche Carlo Alfano, Ernesto Tatafiore, Richard Long, fra gli altri, negli anni ’80, si sono confrontati ognuno a suo modo con il tema del frammento a partire da spunti dal modello antico e del reperto naturale . Rimane, dunque, la ricerca di identità, l’energia sottesa e la forza visionaria dei reperti a costituire l’aggancio con l’esperienza di luoghi come Pompei ed Ercolano; così nelle sale museali, come anche nell’immagine rifratta di quei temi nei luoghi di transito della città contemporanea. Lungo le linee della nuova metropolitana, della ferrovia cumana e all’aereoporto di Capodichino, da alcuni anni monumentali fotografie in bianco e nero collocate in ambienti di svincolo, rimandano a queste ricerche che stemperano, tuttavia, gli sguardi privilegiati dei fotografi, dai luoghi mitici a siti meno frequentati dai flussi turistici, come Cuma e i Campi Flegrei. Mimmo Jodice e Luigi Spina , in particolare, hanno rivolto l’obiettivo ai bronzi della Villa dei Papiri di Ercolano, ma anche alla Sibilla cumana e ai reperti archeologici di Bagnoli o di Baia (Jodice), e a quelli di Santa Maria Capua Vetere e di Pitechusa (Spina). La fotografia, così, allarga lo sguardo oltre il mito, si cala nelle zone di luce e ombra anche di luoghi nascosti all’immagine dei capolavori dell’antico, richiamandone sopite suggestioni. Un’ “apparizione” sembrano, così, le rovine dell’anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere fotografate dal sammaritano Luigi Spina: «spesso le cose te le trovi dinanzi» – dice Spina – ma «la luce, come il tempo, non si decidono, si ricercano» . E anche l’Afrodite di Capua (fotografata di taglio da Spina) o la Psiche di Capua, presa a modello per le teste di resina dell’artista napoletana Gloria Pastore, vanno così “ricercate”, estrapolate dal flusso della storia per essere riconosciute. Entrambe le statue antiche erano state rinvenute nell’anfiteatro campano e sono state poi custodite nel museo archeologico di Napoli, sole, fra tante. Spina dell’Afrodite ritaglia il numero d’inventario, memoria della custodia; Pastore dal calco della testa della Psiche elabora un nuovo universo, fra stratificazione geologica, naturale, e immaginario fantastico al femminile.

Con questa terra ha da sempre dialogato anche Livio Marino Atellano, attento dagli anni ’90 alle forme dell’antico. Le sue Campanie (titolo emblematico), torsi acefali gravidi di storia, sono figure altere, orgogliose di mantenersi erette come scudi, come Matres matutae o come vulcani, anche connotati da cromatismi aggressivi. Forme del Vesuvio, simbolo di una regione, tanto spesso vittima di una trita oleografia, che si fondono con lo stesso volto dell’artista, spesso ossessivamente reiterato e ingabbiato, o con l’immagine della maschera (anche in riferimento alle antiche fabulae messe in scena ad Atella, sua terra natìa richiamata ad arricchire la sua firma). Atella, ai margini dei circuiti turistici, ha ispirato più volte il contemporaneo con intriganti rifrazioni: come negli scatti fotografici di Antonio Biasiucci che nel 2005 presso la Pinacoteca comunale di Sant’Arpino ( presso Caserta) presentò una mostra intitolata Antonio Biasiucci immagina Atella. Nel Parco Archeologico-ambientale di Atella, pietra, marmo, metallo, tassello, creta, relitto, «i segni materiali di cui è fatta l’archeologia, aspettano come nelle favole colui che sa risvegliarli dal loro sonno» . Questi può essere l’archeologo, ma anche l’artista che ha letto dentro le vecchie pietre i volti e i frantumi di civiltà che il tempo ha sfregiato . L’intervento dell’artista, in casi come questo, si sposa con progetti di promozione del patrimonio archeologico di un’ampia area, ma può concentrarsi anche a valorizzarne alcuni aspetti, con scelte mirate, come è stato per il sito dell’antica Teanum, reinterpretato nel 2006 dall’obiettivo di Luigi Spina . Non lontano da questo, un altro sito lungo il litorale domizio ha avuto bisogno dell’attenzione di un fotografo, come il napoletano Aniello Barone, per uscire dalla “marginalità”: il sito di Liternum divenuto Parco archeologico dal 2009. Tre immagini di grande formato, esposte nel 2012 al centro di una sala del MANN, hanno creato «un percorso metastorico che mette in collegamento i resti antichi alle ciminiere e alle fabbriche di un contesto post industriale» .

E’ poi di nuovo la fotografia, e questa volta del già ricordato Luigi Spina, a lenire la ferita dell’abbandono delle centinaia di scatole zeppe di reperti lasciati nei depositi del museo archeologico di Pithecusae, sull’isola di Ischia. Per circa cinquant’anni, dal 1952, l’archeologo Giorgio Buchner aveva scavato raccogliendo moltissimi reperti (oggetti di ogni tipo compresi denti, frammenti di ossa, zolle di terra) avvolti con carte di giornali – che portano le date dei periodi di scavo – conservati poi in scatolini più piccoli costruiti artigianalmente. Con spirito neo-archeologico, Spina ha riesumato queste cassette di custodia fotografandole come quadri incorniciati che aprono ad una «storia di tempi che si intrecciano» . C’è «un senso terrestre in tutto ciò. La terra con i suoi ritmi scanditi […] Il tempo dell’archeologo, il tempo delle cose: riassemblati dal tempo nuovo del fotografo» , grazie a cui i reperti si espongono come a rinnovate rifrazioni.

Altrettanto accade – mi sembra – negli interventi site specific ancora ispirati alla Land Art nella manifestazione annuale che i Campi Flegrei dal 2006 dedicano al rapporto fra antico e contemporaneo: il progetto internazionale Land Art Campi Flegrei, appunto, portato avanti da associazioni locali, «mira a connotare il parco dei Campi Flegrei come museo a cielo aperto e intende valorizzare il potenziale turistico-rurale della zona e coinvolgere le amministrazioni, i produttori locali e la comunità, rendendoli protagonisti di una nuova cultura dell’accoglienza» . Lago d’Averno, Cuma, cratere degli Astroni, sono stati negli anni oggetto d’interventi artistici, il più delle volte biodegradabili, per stringere in modo più forte l’antico legame fra territori antichi e natura, per scavare in storie sommerse e nello stesso tempo dare rilievo al paesaggio con i suoi processi naturali di creazione/distruzione. Così i Breathing Holes, scavati nel 2015 vicino al lago d’Averno dall’artista tedesca Hella Berent, sono quindici fori nel terreno, forgiati all’interno da supporti di creta e ferro, affinché la terra ricavata dallo scavo intorno alle aperture contribuisse, come valvole di sfogo, a dare “respiro” all’area vulcanica.

Una nuova tendenza a disseppellire, se possibile, l’organicità dell’antico, sull’orlo fra visibile e invisibile, permanente ed effimero, sembra insinuarsi in queste esperienze; soprattutto in casi come quelli illustrati, in un certo senso ai margini dei luoghi simbolici della storia antica: a ribadire – diremmo su suggerimento del napoletano Gerardo Di Fiore– le “ombre” e “l’ inquietudine del classico”. Sin dalla fine degli anni ’60 quest’artista ha preso «appunti dal classico» tagliando e ricucendo una nuova materia, soffice e deperibile come la gommapiuma, fino a immaginare di disseppellire frammenti scultorei “morbidi” dal ventre della terra: pionieristiche sperimentazioni in territorio campano, preludio, evidentemente, delle molte successive proiezioni dal mondo antico disposte a frangersi in imprevedibili direzioni.

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